http://www.laterrachevogliamo.com/2012/03/06/loro-che-non-brilla/
La questione petrolifera che sta facendo tanto discutere in questi giorni non riguarda soltanto il Vallo di Diano e la vicina Basilicata, ma l’intera Penisola. Infatti, nonostante siano stati rilasciati finora 121 permessi di ricerca e 200 concessioni estrattive, le compagnie petrolifere hanno depositato altre 106 istanze per il rilascio di nuovi permessi. Forse perché l’oro nero non basta. Anzi, si sta esaurendo. È stato infatti stimato che per il 2025 si esauriranno i giacimenti dell’Eni in Val d’Agri.
Attualmente dai suoli lucani si estrae l’80% della produzione italiana. Già nel 1997 in Basilicata sono stati prodotti oltre 11mila barili di petrolio al giorno. Attualmente, se ne estraggono circa 100mila nell’arco di una giornata. Ben presto, però, la produzione dovrebbe quasi raddoppiare, grazie ai giacimenti di Tempa Rossa.
I pozzi di petrolio lucani custodiscono, secondo le stime ufficiali, circa 600 milioni di barili. Una riserva di idrocarburi che fa gola alle grandi multinazionali del petrolio, tanto da chiedere nuovi permessi esplorativi al ministero dello Sviluppo Economico.
In tutto sono 15 le nuove istanze presentate, alcune delle quali riguardano anche le due regioni confinanti, Campania e Calabria, che si vanno ad aggiungere ai 12 permessi di ricerca e alle 22 autorizzazioni per la trivellazione dei suoli lucani da parte delle compagne Eni, Total e Shell.
Anche il Vallo di Diano è finito nel mirino delle compagnie petrolifere. Ma i sindaci della zona, analogamente a quanto decisero nel 1997 di fronte alla richiesta della Texaco di cercare idrocarburi nel sottosuolo valdianese, arrivando addirittura ad incatenarsi davanti all’ingresso della Certosa di San Lorenzo, hanno già deciso di opporsi all’istanza “Monte Cavallo” della multinazionale Shell.
Oggi come ieri si temono soprattutto rischi idrogeologici e sismici che potrebbero causare le trivellazioni. Senza contare gli effetti che gli impianti petroliferi potrebbero arrecare al già precario sistema economico locale.
Eppure, nell’immaginario collettivo, il petrolio ha sempre evocato concetti come ricchezza, potere e lavoro. Tutto vero, se non fosse per l’anomalia lucana. Il petrolio, infatti, in Val d’Agri non ha determinato finora la nascita di nuove imprese e, solo in pochi casi, sembra aver favorito la crescita di quelle già esistenti.
Secondo i dati contenuti nella ricerca realizzata nel 2009 dal professore Davide Bubbico dell’Università degli studi di Salerno, le aziende complessivamente operanti nell’indotto del Centro olio di Viggiano e dei pozzi di estrazione gestiti dall’Eni sono poco più di 80, di cui 24 locali (7 della provincia di Matera e 17 di quella potentina). Il resto sono prevalentemente lombarde e abruzzesi e svolgono un ruolo di primo piano nel Centro olio di Viggiano, a differenza delle ditte locali. Le attività di perforazione sono gestite dalla Saipem del gruppo Eni e dalla emiliana Pergemine.
La gestione dei pozzi e il caricamento provvisorio del petrolio nelle vasche di accumulo sono affidate alla Italfluid Geo Energy di Pescara. Alle aziende locali, invece, sono affidate principalmente mansioni secondarie.
Ma è soprattutto sul fronte occupazionale il fallimento maggiore del “sogno” petrolifero lucano. Gli addetti che svolgono un’attività stabile e continuativa tra il Centro Eni e i pozzi di estrazione sono complessivamente 450 (meno del 50% sono lucani). A questi vanno aggiunti 140 addetti che lavorano per conto delle ditte appaltatrici. Nel complesso si può dunque stimare un’occupazione giornaliera di 600 persone.
Come se non bastasse, “all’interno del Centro Eni di Viaggiano – si legge nella ricerca del professor Davide Bubbico – vengono applicate formule contrattuali diversificate che a volte determinano situazioni di vera e propria disuguaglianza di trattamenti tra lavoratori, sia in termini di condizioni di lavoro e di salario che di situazioni legate alla prevenzione dei rischi per la salute che tende a variare dalle caratteristiche dell’azienda per cui si lavora”.
La precarietà contrattuale cancella di fatto tutti i diritti e le garanzie lavorative. “Succede così che i lavoratori che per un certo numero di anni sono alle dipendenze di un’azienda, quando cambia l’appalto non solo rischiano il posto di lavoro, ma sul piano dei diritti contrattuali iniziano nuovamente come se per loro fosse il primo giorno di lavoro, e così succede che un lavoratore a 50 anni si vede costretto a rinunciare al salario per ottenere un nuovo contratto di lavoro che a volte è anche a termine. In effetti, cambia l’appalto e ai lavoratori si azzerano i diritti contrattuali con il rischio anche di perdere le professionalità e le capacità acquisite in anni di esperienza lavorativa”.
La situazione, dunque, sembrerebbe ben lontana da quelle “significative ricadute occupazionali connesse all’indotto” che la Regione Basilicata indicò nel Programma operativo regionale 2000-2006.
Al di là dell’impatto occupazionale, rimane il problema della stagnazione economica generale della Basilicata. Basta guardare soprattutto gli indicatori economici lucani per capirne le ragioni. Negli ultimi anni, il prodotto interno lordo lucano ha fatto registrare sempre il segno negativo.
Nel 2009 il 17,5% delle famiglie residenti in Basilicata possedeva un reddito annuale inferiore ai 12mila euro. Un dato allarmante, se si considera che l’anno successivo quasi il 40% delle famiglie giudicava scarse le risorse finanziarie disponibili.
La Basilicata, dunque, presenta una situazione di completa stagnazione economica. Probabilmente perché il lavoro continua a scarseggiare, nonostante l’enorme quantità di oro nero in questa regione. Secondo l’ultimo rapporto Svimez il tasso di disoccupazione nel 2010 era del 13%, quasi due punti percentuali in più rispetto all’anno precedente. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, secondo i dati Istat, il numero degli occupati è calato di circa 7mila unità rispetto al trimestre precedente.
La vera piaga lucana, tuttavia, resta la disoccupazione giovanile. Quasi la metà dei ragazzi tra i 15 e 24 anni, infatti, è senza un lavoro. Forse per questa ragione i giovani lucani non hanno mai smesso di emigrare. Sempre secondo l’Istat, negli ultimi tre anni la popolazione lucana è diminuita sensibilmente rispetto agli anni precedenti.
A nulla sono servite, a quanto pare, le promesse miracolistiche fatte nel 1998 dalle compagnie petrolifere e le royalties versate in tutti questi anni. I risultati, dunque,a distanza di tanti anni, stentano ad arrivare.
Lo scorso anno lo Stato e la Regione Basilicata hanno sottoscritto un Memorandum per rilanciare lo sviluppo regionale e le estrazioni petrolifere di Eni e Total. “Creare nuova occupazione attraverso la ricerca, la formazione e la promozione di nuove iniziative in campo ambientale, turistico ed industriale”. A questo doveva servire il Memorandum firmato il 29 aprile scorso a Potenza dal presidente della Regione Basilicata Vito De Filippo, dal sottosegretario alla Pubblica istruzione Guido Viceconte e dal sottosegretario allo Sviluppo economico Stefano Saglia.
Il sistema economico lucano è in ginocchio. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, il livello della produzione industriale lucana era nettamente inferiore al resto del Mezzogiorno.
A soffrire di più sono state soprattutto le piccole imprese, mentre quelle grandi sono riuscite in qualche modo a contenere le perdite. Nel complesso, la quota di imprese che hanno ridotto la produzione ha raggiunto il 39%.
Dal punto di vista settoriale, soltanto l’industria delle macchine elettriche ha fatto registrare un incremento della produzione. Tutti gli altri settori, invece, hanno mostrato cali preoccupanti. Infatti, molte aziende sono state costrette a chiudere o a fare ricorso in modo massiccio alla cassa integrazione.
Gli abitanti della Val d’Agri non vogliono più sentir parlare di petrolio. Il loro unico pensiero è il lavoro. Non credono più alle promesse e alle rassicurazioni delle compagnie petrolifere o dei politici. Infatti, le manifestazioni di protesta contro le trivellazioni sono ricominciate. Fra raccolte di firme, consigli comunali e proteste, tutti chiedono garanzie. La salute e la tutela dell’ambiente, e non più il lavoro, rappresentano i temi centrali delle manifestazioni. Forse perché in Basilicata i tumori sono notevolmente aumentati negli ultimi anni. Secondo gli ultimi dati disponibili e contenuti nel Registro tumori della Basilicata, tra il 1997 e il 2006, le donne si sono ammalate soprattutto di neoplasie alla mammella (tasso di incidenza nel 1997 del 44,99%; tasso di incidenza nel 2006 del 91,92%), al colon (tasso di incidenza nel 1997 del 22,01%; tasso di incidenza nel 2006 del 54,23%), al rene e alle vie urinarie (tasso di incidenza nel 1997 del 3,56 %; tasso di incidenza nel 2006 del 6,94%). Gli uomini, invece, hanno contratto tumori soprattutto allo stomaco (tasso di incidenza nel 1997 del 12,66%; tasso di incidenza nel 2006 del 21,26%), al colon (tasso di incidenza nel 1997 del 25,32%; tasso di incidenza nel 2006 del 74,4%) e alla prostata (tasso di incidenza nel 1997 del 20,99%; tasso di incidenza nel 2006 del 63,43%).
Finora i dati presenti nella letteratura medico-scientifica, come sottolinea il Dipartimento e osservatorio epidemiologico regionale, non sono sufficienti a stabilire un legame fra esposizione a sostanze legate alle attività estrattive (in particolare l’idrogeno solforato) e le malattie tumorali. Ma recentemente è stata individuata la possibilità di correlazione fra esposizione ad idrogeno solforato e l’insorgenza di danni al DNA, “le molecole della vita” che includono il codice genetico di ciascun essere umano. I danni al DNA vengono chiamati “mutazioni genetiche” e possono essere legati all’insorgere di tumori.
Danni o non danni, i cittadini lucani sembrano intenzionati ad andare avanti con le proteste. Temono soprattutto l’inquinamento delle falde acquifere e dei parchi naturali. Si oppongono ai nuovi permessi, in quanto prevedono rilievi sismici anche in aree protette e di interesse ambientale.
Per gli stessi motivi si oppongono al permesso di ricerca petrolifero “Monte Cavallo” della multinazionale Shell anche i sindaci del Vallo di Diano, appellandosi alle parole di Franco Ortolani, ordinario di geologia, che giudica “un errore imperdonabile provocare l’inquinamento di risorse idriche strategiche rinnovabili, destinate a persistere in eternità sul territorio e quindi a disposizione di tutte le generazioni umane future, in seguito ad una non completa e corretta valutazione dei rischi connessi all’estrazione degli idrocarburi”.
Ortolani è ormai uno studioso abbastanza noto nel Vallo di Diano. Il suo primo lavoro di ricerca in zona risale al 1997, in occasione delle proteste locali contro le ricerche petrolifere della multinazionale Texaco. In quella circostanza, Ortolani fu contattato per effettuare uno studio geologico nel Vallo di Diano, dal quale emerse chiaramente l’importanza che hanno le acque sorgive e di falda per l’assetto socio-economico del Vallo di Diano.
Paradossalmente, uno dei comuni interessati dal progetto petrolifero della multinazionale Shell è proprio Montesano sulla Marcellana, noto anche a livello nazionale per le qualità oligominerali dell’acqua che sgorga dalle sorgenti locali.
L’amministrazione comunale si è già espressa contro le indagini petrolifere. Si temono l’inquinamento delle falde acquifere e pericoli sismici. Non sono affatto esclusi, infatti, spostamenti o rotazioni di blocchi rocciosi di notevole spessore. Tali situazioni potrebbero determinare seri problemi alle tubazioni e la fuoriuscita di fluidi nel sottosuolo, con conseguente inquinamento delle falde idriche.
L’inquinamento da queste parti fa paura. Gli abitanti della zona sono sempre più preoccupati per l’escalation di malattie tumorali. Ma c’è anche chi getta acqua sul fuoco e invita le istituzioni a sentire le ragioni della compagnia petrolifera. L’Associazione imprenditori del Vallo di Diano e qualche istituto bancario locale hanno chiesto ai sindaci di cogliere l’occasione del petrolio per rilanciare l’economia locale. Ma al momento nessuno dei sindaci del posto sembra voler scommettere sull’oro nero. Il loro no alla richiesta della multinazionale petrolifera è stato espresso anche attraverso un documento approvato al termine della riunione che si è tenuta il 23 febbraio scorso presso la sede della Comunità montana Vallo di Diano.
La questione petrolifera nei giorni scorsi è approdata anche in Parlamento. I senatori Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, infatti, hanno accolto l’appello del comitato “No al petrolio nel Vallo di Diano” presentando un’interrogazione al ministro dell’Ambiente Corrado Clini.
Non è sfuggito ai due senatori di sottolineare al ministro il fatto che la Shell prevede di estrarre idrocarburi in un territorio compreso tra due parchi nazionali, considerato ad alto rischio sismico, ricco di riserve idriche e a vocazione prevalentemente agricola.
Il petrolio, insomma, continua a far discutere. Ma l’impressione è che nel Mezzogiorno, e nel resto del paese, la corsa all’oro nero sia appena cominciata.
Elia Rinaldi
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